Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha preso in esame il caso di una “live” su TikTok. Cosa succede da ora in poi se si insulta un’altra persona sul social media.
A tutti sarà capitato, scorrendo contenuti sul social media TikTok, di imbattersi in utenti che pronunciano soliloqui. Discorsi, talvolta, che raccontano di liti, colmi di rabbia, rancore e offese verso qualcuno che, al pari di chi parla, ci è sconosciuto.
Una deriva di cui recentemente la legge italiana ha dovuto occuparsi per rispondere ad una domanda in particolare: se la persona offesa porta in giudizio chi ha pronunciato su TikTok quelle frasi, si tratta di ingiuria o di diffamazione? Una questione non da poco, poiché se la diffamazione reato rimane regolata dal Codice penale, l’ingiuria è stata depenalizzata nel 2016 ed è adesso “solo” un illecito civile.
La differenza tra i due comportamenti illeciti concettualmente è semplice: è ingiuria quando si offende una persona presente; è diffamazione quando l’offeso non è presente. La semplicità terminologica, però, si esaurisce sul web ed in particolare sui social media. Quando può essere considerato effettivamente “presente” l’offeso? In videocall? Da remoto? Nei commenti? Se partecipa ad una live su TikTok?
Ad intervenire è stata la Cassazione, partendo da un caso particolare per fare chiarezza una volta per tutte. La sentenza è la numero 29458/2025 della V Sezione penale della Corte di Cassazione (presidente Rosa Pezzullo). I giudici hanno esaminato un ricorso ad un provvedimento emesso il 18 febbraio 2025 dalla Corte d’appello di Reggio Calabria. I magistrati calabresi hanno condannato una donna per diffamazione a seguito di alcuni video pubblicati proprio su TikTok.
Il difensore di fiducia dell’imputata si è rivolto alla Cassazione per due ordini di motivi. Il primo è che i video erano stati realizzati in diretta, durante delle cosiddette “live”. A quelle dirette avevano partecipato molti utenti, compresa la persona offesa. Che era dunque presente, anche se solo virtualmente, e dunque per i ricorrenti sarebbe stata commessa ingiuria e non diffamazione. Il secondo è che lo stato d’ira dell’imputata era stato causato da precedenti “frasi bullizzanti” contro la donna ed il figlio gravemente malato sempre in video.
“I moderni sistemi tecnologici – si legge nella sentenza – rendono necessaria una specificazione (del concetto di presenza, ndr)”. La Cassazione ha preso in esame casi già trattati. Sostanzialmente, si tratta di ingiuria se le offese vengono pronunciate durante una videoconferenza in cui l’offeso è anche solo virtualmente presente. È diffamazione, invece, quando le offese raggiungono ad esempio un gruppo WhatsApp in cui è presente anche l’offeso che però non è in grado di percepire “con immediatezza” i messaggi.
La differenza, insomma, sta nella “possibilità di interlocuzione diretta tra autore e destinatario dell’offesa”, che non può replicare o avere un contraddittorio immediato. Per i giudici della Suprema corte è proprio questo il caso delle dirette video su TikTok. È vero che la persona offesa ha assistito alla live, ma la possibilità eventuale di inserire commenti rappresenta “uno strumento di interlocuzione limitato” e “non mette in rapporto diretto e paritario offensore e offeso”.
Tanto più che i video incriminati sono poi rimasti sulla piattaforma e sono stati visti e condivisi da molte altre persone. Senza una “parità delle armi”, quindi, si tratta di diffamazione e non di ingiuria. Il ricorso è perciò stato respinto e la condanna è stata confermata dalla Cassazione, che con la sua sentenza ha di fatto regolamentato un settore che si evolve sempre più velocemente.
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